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La responsabilità extracontrattuale è contemplata dall’art. 2043 c.c., il quale dispone: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno».

Si tratta di una norma volutamente di ampio respiro, tale da ricomprendere, con confini mobili, tutte quelle ipotesi non previamente individuabili di danno a terzi e quindi a soggetti non contrattualmente legati all’autore dell’illecito.

Affinché possa sussistere una responsabilità extracontrattuale (c.d. da fatto illecito) e il conseguente diritto al risarcimento del danno da parte del danneggiato, devono concorrere alcuni elementi:

(a) deve essere violata una norma giuridica

Individuata la norma giuridica nella regola comportamentale che ogni consociato deve osservare, ne deriva che ogni sua violazione comporta l’insorgere di una responsabilità in capo al soggetto agente.

Se – come detto – nella responsabilità contrattuale la violazione consiste nell’inosservanza delle regole che disciplinano l’adempimento delle obbligazioni contrattuali, nella responsabilità extracontattuale la violazione sussiste ogni qualvolta la condotta del singolo abbia comportato una lesione del principio del neminem laedere, e cioè del non arrecare danno ad altri.

Ciò porta quindi ad affermare che, al di là dell’ambito circoscritto della responsabilità contrattuale, la responsabilità extracontrattuale è ravvisabile laddove si assista alla violazione di una norma giuridica con conseguenze in capo al danneggiato.

(b) il comportamento dell’autore del fatto deve essere doloso o colposo.

Altro elemento essenziale perché si ravvisi una responsabilità extracontrattuale è la sussistenza di una componente psicologica in capo al soggetto agente.

Come prevede l’art. 2043 c.c., occorre che il fatto illecito sia la conseguenza di una condotta tenuta con dolo o colpa.

Il dolo si ravvisa laddove l’autore del fatto abbia intenzionalmente posto in essere la condotta illecita. Alla sua base si pone quindi la volontà dell’azione comportamentale sfociata nel fatto illecito.

La colpa si ravvisa invece allorquando il fatto illecito sia la conseguenza di una negligenza (ad es., dimenticare un colpo in un arma riposta in un armadio), imperizia (ad es., il medico che cagiona la morte del paziente per un errore diagnostico facilmente evitabile con le dovute conoscenze specialistiche) o imprudenza (ad es., l’inosservanza dell’obbligo di precedenza in prossimità di un incrocio stradale). Alla base della colpa si pone quindi quella condotta non volontaria ma comunque produttiva di un danno a terzi.

(c) il danno arrecato deve essere ingiusto.

Il danno rappresenta l’epilogo della condotta illecita.

Perché il danno abbia rilevanza sotto il profilo risarcitorio è necessario che esso si configuri quale ingiusto.

La nozione di danno ingiusto coincide con quella di danno arrecato a taluno contra legem (ossia in violazione della legge). Si può quindi affermare che il danno è cagione di risarcimento solo laddove lo stesso rappresenti l’evoluzione di una condotta illecita.

Diversamente, il danno non potrà costituire oggetto di risarcimento o al limite potrà costituire oggetto di un indennizzo a favore della parte danneggiata.

L’esempio classico di danno lecito, ossia di danno conseguente ad un comportamento tenuto secundum legem (e cioè nel rispetto della legge) è quello che si individua nelle procedure ablative, quali – ad es. – l’espropriazione per pubblica utilità. Ogni qual volta la Pubblica Amministrazione attiva un procedimento di espropriazione dell’altrui proprietà per fini di pubblica utilità, si attua sostanzialmente una lesione del diritto di proprietà che comporta un danno per il soggetto passivo dell’espropriazione, il quale di fatto si vede sottratta la proprietà di un proprio bene (ad es., un fondo).

Un danno, quindi, che coesiste con una condotta lecita.

Conseguentemente, il ristoro non potrà assumere connotazioni risarcitorie, ma solo indennitarie. In tale caso la legge riconosce infatti all’espropriato il diritto ad un indennizzo, ma non ad risarcimento. Ciò sul presupposto che la condotta del soggetto espropriante (nella specie la P.A.) è stata tenuto nel rispetto della legge.

L’indennizzo rappresenta quindi l’espressione economica satisfattiva della condotta lecita tenuta da altri dalla quale consegue un fatto dannoso.

L’indennizzo, quale misura ripristinatoria del danno conseguente all’altrui condotta lecita può essere riconosciuto solo nei casi previsti dalla legge, non costituendo pertanto una categoria aperta ma chiusa e quindi come tale non estendibile al di là delle previsioni normative.